Avv. Giampaolo Morini – Quando al professionista viene sottoposto l’esame di un contratto finanziario, deve procedere prima di tutto ad un esame formale dei contratti, dopo di che procedere all’esame dei profili strettamente sostanziali che si posso semplificare in due: quello inerente la caratteristica del soggetto investitore; quello inerente la caratteristica del prodotto finanziario offerto e la relativa capacità di tale prodotto di raggiungere il fine promesso. L’esame di tali profili potranno condurre il professionista a rilevare un vizio genetico del contratto da cui ne potrà derivare una nullità e dunque un mera ripetizione dell’indebito e del risarcimento danno per la mancata disponibilità del denaro investito, o una ipotesi di responsabilità contrattuale dalla quale potrà derivare un risarcimento danno.

Il contratto quadro

Il primo aspetto da prendere in considerazione è indubbiamente quello di verificare l’esistenza di un contratto quadro e la relativa sottoscrizione: dalla mancata sottoscrizione in forma scritta del contratto quadro deriva la nullità degli ordini di acquisto. Ai sensi dell’art. 18 D.Lgs. 23.07.1996 n. 415, riprodotto nell’art.23 c. 1 D.Lgs. 24.02.1998 n. 58 Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria. “La stipulazione del contratto quadro costituisce infatti, un necessario presupposto di validità dell’ordine, giacchè gli obblighi informativi previsti dalla legge sono introdotti nel rapporto, ex art. 1374 c.c., mediante tale contratto, con la conseguenza che la mancata stipulazione in forma scritta del contratto quadro comporta la nullità degli ordini di acquisto per mancanza di causa, giacchè il contratto quadro costituisce il fondamento causale degli ordini impartiti dall’investitore all’intermediario finanziario i quali, pur se conclusi in forma scritta, sono nulli qualora non siano preceduti dalla stipulazione di un contratto quadro in forma scritta[1] . L’obbligo di forma scritta[2] è altresì rinvenibile nell’art. 6 c. 1 lett. c) L. 1/1991 pertanto l’esistenza di un contratto quadro, non può essere provata per testi, presunzioni o confessione, né tramite documenti successivamente inviati nel corso del rapporto[3]la mancanza del contratto quadro, inoltre non potrà essere sanata con successivo invio di documentazione all’investitore[4]. In effetti l’eventuale successivo sottoscrizione del contratto quadro non è in grado di sanare o convalidare un contratto nullo, sia che si tratti di contratto-quadro, che ordine di investimento poiché, come ha avuto modo di osservare parte della giurisprudenza di merito, la violazione va ben oltre il difetto di forma arrivando a violare norme imperative la cui ratio non può dirsi soddisfatta allorché il contratto quadro sopravvenga all’ordine di investimento[5]Dall’art. 23 del TUF, si rileva inoltre la necessaria sottoscrizione di entrambe le parti negoziali[6], talchè, la manifestazione di volontà di uno dei due contraenti non può essere sostituita dalla dichiarazione confessoria dell’altra parte, potendo la confessione supplire unicamente la carenza di forma ad probationemn[7]Sempre rimanendo alla forma del contratto, qualora la banca producesse una fotocopia del contratto quadro, in caso di disconoscimento di tale documento da parte dell’investitore, la banca, posta l’istanza di verificazione, potrà superare l’eccezione solamente producendo l’originale del contratto[8]. L’ art. 54 reg. Consob 5387/1991 prescrive che il termine minimo di cinque anni per la conservazione delle annotazioni relative alle operazioni effettuate, pur avendo natura amministrativa e dunque finalizzata a consentire l’attività ispettiva e di controllo delle autorità di vigilanza, non autorizza la distruzione della documentazione, laddove necessaria a provare l’avvenuta conclusione di un contratto per il quale la legge prescrive la forma scritta a pena di nullità: A nulla rileva, pertanto, l’impossibilità materiale per la banca convenuta in giudizio di produrre o fornire copia della documentazione relativa al contratto quadro di investimento che, dunque, deve essere dichiarato nullo[9]In conclusione è utile ricordare la Cassazione civile, sez. II 05 febbraio 2013, n. 2736 – Pres. Oddo – Est. Giusti, che ha chiarito: Sebbene non sia tipizzato dal testo unico, il contratto di investimento si presta ad assurgere a forma giuridica di ogni investimento di natura finanziaria, ai sensi del citato art. 1, comma 1, lett. u). L’atipicità del contratto riflette la natura aperta ed atecnica di prodotto finanziario (come già evidenziato da questa Corte con riferimento alla disciplina recata dalla L. 2 gennaio 1991, n. 1, previgente art. 1: Sez. 1, 19 maggio 2005, n. 10598), la quale, se da un lato costituisce la risposta del legislatore alla creatività del mercato ed alla molteplicità di prodotti offerti al pubblico dai suoi attori, dall’altro risponde all’esigenza di tutela degli investitori, consentendo di ricondurre nell’ambito della disciplina di protezione dettata dal testo unico anche forme innominate di prodotti finanziari.

Obbligo di informazione

Secondo la normativa in materia finanziaria, la banca è tenuta ad un duplice obbligo informativo di natura attiva e passiva. Sotto il profilo attivo la banca ha l’obbligo di illustrare i rischi dell’operazione mentre sotto il profilo passivo, essa deve raccogliere dal cliente le informazioni utili a valutare l’adeguatezza dell’operazione richiesta (in realtà sempre offerta!) dal cliente. In conseguenza di ciò, e a seguito di attenta valutazione da parte della banca, essa deve astenersi dall’eseguire le operazioni ove inadeguate per quel cliente: un caso ricorrente è dato dall’incogruenza tra la durata dell’investimento e l’età del risparmiatore. La normativa in materia bancaria e finanziaria, pur qualificandosi come speciale, non resta estranea alla normativa generale della quale ne rappresenta una specificazione, per tale ragione occorre considerare sia le modalità di adempimento degli obblighi di cui al T.U.F. ed Reg. Consob, sia ai principi dettati dagli art. 1175 e 1375 c.c., correttezza professionale e buona fede che si dovrebbe esplicare da parte dell’intermediario con lo sconsigliare o addirittura impedire l’acquisto di proposti finanziari inadeguati al risparmiatore. Una recente pronuncia delle S.U della Cassazione[10][11], ha chiarito che dal contratto quadro, cui può darsi il nome di contratto di intermediazione finanziaria, che la Cassazione stessa ha accostato alla figura del mandato, derivano obblighi e diritti reciproci dell’intermediario e del cliente. Le operazioni che seguono al contratto quadro, quindi, e che l’intermediario compie per conto del cliente, pur essi da considerarsi atti di natura negoziale, costituiscono il momento attuativo del precedente contratto di intermediazione (contratto quadro appunto). Come affermato dalla giurisprudenza appena citata, attiene alla fase pre-contrattuale l’obbligo di consegnare al cliente il documento informativo, ed attiene sempre a tale fase preliminare il dovere dell’intermediario di acquisire le informazioni necessarie in ordine alla situazione finanziaria del cliente, in modo tale da essere poi nelle condizioni di adeguare ad essa la successiva operatività. Si tratta di due concetti di derivazione anglosassone del c.d. divieto di churning e della c.d. suitability rule che impone all’intermediario di adottare tutte le cautele necessarie al fine di garantire l’adeguatezza della proposta finanziaria rispetto al profilo del cliente, e non solo[12]. Il divieto di churning e la c.d. suitability rule, rappresentano una garanzia nella formazione consapevole della volontà del soggetto che aderisce a determinate tipologie di contratti. In tal senso deve darsi altresì conto del contenuto della previsione di cui all’art. 29, l° co., del reg. CONSOB n. 11522, che impone agli intermediari di astenersi dall’effettuare con o per conto degli investitori operazioni non adeguate per tipologia, oggetto, frequenza e dimensione.

Dovere di informazione successivo alla stipulazione del contratto di intermediazione

I doveri d’informazione sussistono anche dopo la stipulazione del contratto d’intermediazione in quanto finalizzati alla corretta esecuzione. In questa fase è dovere della banca di porre sempre il cliente in condizione di valutare appieno la natura, i rischi e le implicazioni delle singole operazioni d’investimento o disinvestimento, nonchè di ogni altra circostanza necessaria a disporre con consapevolezza dette operazioni. A fronte di ciò la banca deve comunicare per iscritto l’esistenza di eventuali situazioni di conflitto di interesse, come condizione per poter eseguire ugualmente l’operazione se autorizzata. Attengono poi al momento esecutivo i doveri di contenuto negativo posti a carico dell’intermediario vale a dire quelli di non consigliare e di non effettuare operazioni di frequenza o dimensione eccessiva rispetto alla situazione finanziaria del cliente. Tale determinante requisito assume contenuti ancor più pregnanti allorquando si hanno di fronte risparmiatori di una certa età, età in cui è più difficile rendersi conto della complessità dell’investimento. Così pure assume rilevanza la valutazione da parte delle principali agenzie di rating in merito al rischio di un determinato prodotto finanziario. Come correttamente osservato sia in dottrina che in giurisprudenza, il concetto di diligenza di cui all’art. 21, comma 1, lett. a) del TUF si riferisce alla “diligenza del buon professionista” e non a quella del “buon padre di famiglia”. Pertanto, anche se non menzionata espressamente, la professionalità contrassegna la modalità di comportamento degli intermediari, precisando il significato della diligenza. L’obbligo di acquisire le informazioni necessarie dai clienti e di operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati (art. 21, comma 1, lett. b) del TUF); l’obbligo di informarsi sulla situazione finanziaria dell’investitore, – c.d. know your customer rule – (art. 28, comma 1, lett. a) del Regolamento Consob) e l’obbligo di astenersi dall’effettuare con o per conto degli investitori operazioni non adeguate per tipologia, oggetto, frequenza o dimensione,- c.d. suitability rule – (art. 29, comma 1 del Regolamento Consob). Grava indubbiamente sull’operatore l’obbligo di fornire al cliente indicazioni precise circa la pericolosità dell’investimento, anche con riguardo al rischio rimborso capitale, non potendosi ritenere assolto il dovere della banca sull’assolvimento degli obblighi suddetti, come naturale conseguenza della consegna all’investitore del c.d. documento sui rischi generali degli investimento in strumenti finanziari. Ai sensi dell’art. 28, comma 1, lett. b) del regolamento Consob n. 11522/98, infatti, prima (…) dell’inizio della prestazione dei servizi di investimento (…), gli intermediari autorizzati devono (…) consegnare agli investitori il documento sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari di cui all’Allegato n. 3[13]. Il documento in esame dovrebbe mettere l’investitore nelle condizioni di comprendere la natura e il grado di esposizione al rischio delle operazioni in strumenti finanziari. Per raggiungere un obiettivo così ambizioso, la Consob, con un apprezzabile sforzo di semplificazione, sintetizza concetti complessi e sofisticati, (apparentemente) strumentali ad una miglior comprensione della dinamica delle operazioni nel mercato finanziario. A titolo meramente esemplificativo, tramite il documento de quo, si insegna all’investitore neofita che il rischio può essere idealmente scomposto in due componenti: il rischio specifico ed il rischio generico (o sistematico); inoltre, si mette in guardia lo stesso investitore del fatto che il rischio sistematico per i titoli di capitale trattati su un mercato organizzato si origina dalle variazioni del mercato in generale; variazioni che possono essere identificate nei movimenti dell’indice del mercato. Ovvero che il rischio sistematico dei titoli di debito (…) si origina dalle fluttuazioni dei tassi d’interesse di mercato che si ripercuotono sui prezzi (e quindi sui rendimenti) dei titoli in modo tanto più accentuato quanto più lunga è la loro vita residua (…). È agevole comprendere come, nella maggior parte dei casi, l’investitore non professionale non abbia gli strumenti cognitivi per poter metabolizzare informazioni così complesse e, in particolare, per funzionalizzarle nell’elaborazione delle strategie di investimento. “Rischio sistematico”, “rischio di cambio”, “divisa”, “opzioni di tipo americano” etc. sono termini che non appartengono al vocabolario dell’investitore comune, il quale, dinnanzi alla complessità attuale dell’ingegneria finanziaria, sente sempre più l’esigenza di investire nella fiducia della controparte, minimizzando i costi, soventi proibitivi, della “conoscenza”.L’obbligo dell’intermediario di consegnare il documento sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari deve essere considerato esclusivamente come una delle tante tecniche utilizzate dall’ordinamento giuridico per colmare il gap informativo tra le parti; e non, quindi, come una “diabolica” presunzione di consapevolezza del risparmiatore. Siffatta chiave di lettura, accolta da una parte della giurisprudenza, conduce ad escludere che il mero rispetto da parte dell’intermediario dell’obbligo in questione trasformi – miracolosamente – il cliente non professionale in investitore consapevole, capace di tutelare da sé il proprio interesse e, in ultima analisi, in grado di assumersi i rischi dell’investimento compiuto.

L’adeguatezza

L‘intermediario deve comunque assicurare all’investitore la propria assistenza e la propria guida nella scelta delle operazioni da compiere, anche al di là delle asettiche e standardizzate informazioni riportate nel documento. In tale ottica viene in rilievo il concetto di adeguatezza delle informazioni che riecheggia all’art. all’art. 21, comma 1 lett. b) del TUF; il quale stabilisce, per l’appunto, che nella prestazione dei servizi di investimento e accessori gli intermediari finanziari devono operare in modo che i clienti siano sempre adeguatamente informati in rapporto alle caratteristiche del risparmiatore. Il concetto di adeguatezza delle informazioni, che trova la propria fonte nell’art. 11, punto 5 della direttiva n. 93/22/CEE, consente, infatti, a prescindere dalle aprioristiche specificazioni della Consob, valutazioni discrezionali circa la definizione degli obblighi informativi, rimesse in prima battuta all’intermediario e in secondo luogo all’interprete. Vi è, quindi, spazio – anche in Italia – per un’interpretazione elastica della disciplina dell’informazione, in grado di evitare sia di circoscrivere l’informazione richiesta a quella prevista a livello regolamentare, sia di travolgere il cliente sotto un flusso magmatico e incontrollato di dati di ogni sorta, con conseguenti, inevitabili, effetti distorsivi.In altri termini, il riferimento alle informazioni adeguate può essere utilizzato come strumento per rafforzare le regole informative previste a livello regolamentare e allo stesso tempo per attenuarne la rigidità. Il concetto di adeguatezza costituisce infatti nel settore in esame l’anello di congiuntura con i principi generali, così che gli obblighi informativi possono far leva sul principio di buona fede oggettiva e di professionalità ed essere applicati con gradazioni e intensità diverse in tutte le fasi del rapporto tra le parti[14]. Il riferimento all’adeguatezza presuppone naturalmente che le informazioni debbano essere modellate dall’intermediario alla luce delle peculiarità del rapporto con il cliente, in guisa che, a seconda della controparte, l’operatore finanziario dovrà calibrare diversamente gli obblighi informativi, soddisfacendo le specifiche esigenze informative proprie del singolo rapporto.

L’obbligo dell’intermediario di mantenersi informato sulla situazione del cliente

Per orientamento delle Sezioni Unite, permane attuale durante l’intera fase esecutiva del rapporto, l’obbligo dell’intermediario di tenersi informato sulla situazione del cliente, in quanto funzionale al dovere di curarne diligentemente e professionalmente gli interessi del cliente. Tale obbligo si rinnova inoltre ogni qualvolta la natura o l’entità della singola operazione lo richieda in quanto la posizione del cliente deve essere vista sotto il profilo dinamico e non statico in quanto suscettibile di evolversi nel tempo. E’ opinione di chi scrive che ogniqualvolta vengano prospettate violazione di doveri comportamentali che, in forza del contratto quadro e delle norme di settore, gravano sull’intermediario nell’esecuzione delle prestazioni alle quali egli è contrattualmente tenuto, possono ritenersi applicabili i generali principi in materia di responsabilità contrattuale, con la conseguente possibilità di pervenire, in presenza del presupposto di cui all’art. 1455 c.c. alla risoluzione del contratto per inadempimento oltre che al risarcimento del danno subito[15] finalizzato a consentire al contraente adempiente di conseguire la riparazione del pregiudizio patrimoniale non eliminabile attraverso le dovute restituzioni[16]. Per chi, come chi scrive, condivide la struttura bifasica di tale rapporto è ipotizzabile la risoluzione del contratto quadro, dal momento che gli obblighi di comportamento la cui violazione conduce al rimedio di cui all’art. 1453 ss. c.c. traggono origine da detto contratto perché, sebbene formalmente dettati da norme di legge o dal regolamento intermediario, sono pur sempre stati trasfusi in esso, o comunque sono divenuti parte integrante del regolamento contrattuale per via di integrazione ai sensi dell’art. 1374 c.c.. Ne consegue pertanto che la violazione dei predetti obblighi integri inadempimento del master agreement e ciò anche nel caso in cui tali standard di condotta siano funzionali alla conclusione dei contratti particolari o comunque delle operazioni di negoziazione attuative dei predetto contratto quadro[17].

Il conflitto di interesse

Come noto, l’art. 21, comma 1, lett. c) del TUF stabilisce che: Nella prestazione dei servizi di investimento e accessori i soggetti abilitati devono (…) organizzarsi in modo tale da ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse e, in situazioni di conflitto, agire in modo da assicurare comunque ai clienti trasparenza ed equo trattamento. Si tratta di una regola analoga a quella codificata a livello europeo nel documento del Committee of European Securities Regulators (noto come CESR) “Un regime europeo per la protezione dell’investitore: l’armonizzazione delle regole di condotta”[18]. Lo standard 5 stabilisce, infatti, che: Un’impresa di investimento deve prendere tutte le precauzioni necessarie affinché i conflitti di interesse tra la stessa ed i propri clienti siano identificati, e dunque eliminati o amministrati in modo tale da non pregiudicare l’interesse dei risparmiatori (…)[19]. Anche la Direttiva Europea del 21 aprile 2004, n. 39[20], che abroga la Direttiva 93/22/CEE, accoglie un’impostazione simile, cristallizzando definitivamente un orientamento di matrice anglo-americana[21], che si era da tempo imposto nel senso della International Organisation of Securities Commissions[22]. Regolamento n. 11522/98 “fa rientrare dalla finestra ciò che il legislatore ha fatto uscire dalla porta”. In particolare il riferimento normativo è nell’art. 27, comma 2 del citato Regolamento il quale, per i servizi diversi dalla gestione di portafogli di investimento su base individuale, prevede che: Gli intermediari autorizzati non possono effettuare operazioni con o per conto della propria clientela se hanno direttamente o indirettamente un interesse in conflitto, anche derivante da rapporti di gruppo, dalla prestazione congiunta di più servizi o da altri rapporti di affari propri o di società del gruppo, a meno che non abbiano preventivamente informato per iscritto l’investitore sulla natura e l’estensione del loro interesse nell’operazione e l’investitore non abbia acconsentito espressamente per iscritto all’effettuazione dell’operazione (…)In altri termini, la Commissione introduce nuovamente nel nostro ordinamento giuridico la nota regola disclose or abstain, in base alla quale l’intermediario non deve operare nel caso di mero interesse nell’operazione (recte concorrenza), salvo espressa e specifica autorizzazione preventiva del cliente, messo a conoscenza della situazione. Si tratta di una regola inefficiente, perché in un rapporto dinamico la verifica della natura e dell’estensione del conflitto e l’autorizzazione time by time incidono negativamente sull’esecuzione dell’incarico, oltre che formalista poiché l’investitore non sofisticato non avendo competenze specifiche nel settore finanziario non è comunque in grado di monitorare la “situazione”, e con l’escamotage del consenso-autorizzazione si accolla i costi di un’eventuale operazione potenzialmente dannosa, deresponsabilizzando l’operatore. Sul punto dunque non sembrano esserci dubbi. In sintesi, a parere di chi scrive, il giudicante, dovrebbe applicare il principio della “supremazia del diritto comunitario”, sfuggendo dal neo-formalismo negoziale su cui si appunta, invece, la regolamentazione Consob ed accogliere un modello di gestione del conflitto che sposta la valutazione del comportamento dell’intermediario ex post, attraverso una difficile ma certamente più efficace analisi dell'”intenzione”[23]. In ordine al rilievo secondo cui l’istituto avrebbe comunque dovuto segnalare l’inadeguatezza dell’operazione ai sensi dell’art. 29 del regolamento sopra menzionato in applicazione della c.d. suitability rule, va preliminarmente osservato che l’intermediario non è esonerato dall’obbligo di valutare l’adeguatezza dell’operazione anche ove (come nel caso di specie) i clienti abbiano rifiutato di fornire le informazioni di cui all’art. 28 I co. lett a) del regolamento Consob n. 11522/98 dovendo in tal caso tenere conto di tutte le informazioni comunque in suo possesso (ad esempio “età, professione, presumibile propensione al rischio anche alla luce della pregressa ed abituale operatività, situazione del mercato”: in tal senso vedasi comunicazione Consob n. DI/30396 del 21-4-2000 dettata in tema di trading on line): tanto si desume sia dai principi generali in tema di correttezza, diligenza e trasparenza dei comportamenti negoziali imposti dalla normativa generale e speciale (cfr. artt. 1175 e 1176 II co. c.c., 21 d. lgs. 58/98) ma anche dal testo l’art. 29 del citato regolamento Consob che impone all’intermediario finanziario di astenersi dal compiere per conto degli investitori operazioni non adeguate e prevede che lo stesso utilizzi ogni altra informazione disponibile anche diversa da quella fornita, ex art. 28 reg. cit., dai clienti, autorizzandolo solo in caso di conferma scritta dell’ordine d’acquisto a darvi (correttamente) esecuzione (la diversa regola contenuta nell’art. 19 co. V della direttiva europea 2004/39/CE del 21-4-2004 non può trovare applicazione al caso di specie sia ratione temporis sia perché le direttive non attuate -e purchè ricorrano gli altri requisiti- non hanno efficacia nei rapporti interprivati: cfr. Cass. 25-2-2004 n. 3762; Corte Giust. CE 29-5-2004 n. 194).

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