L’abuso del diritto nel rapporto sinallagmatico del contratto di conto corrente con affidamento

Avv. Giampaolo Morini – Il secondo comma dell’art. 120 TUB, così come modificato dall’art. 25 d.lgs. n. 342/1999, attribuisce al CICR il potere ed il compito di fissare “modalità e criteri per la produzione di interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni di c/c sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori che creditori“.

La delibera del Cicr sulla produzione di interessi sugli interessi

Il CICR con deliberazione del 9 febbraio 2000, “Modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi scadute nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria e finanziaria (srt. 120 TUB c. 2 come modificato dall’art. 25 D. Lgs 342/1999) ha stabilito i criteri di corrispondenza tra i periodi di corresponsione di tassi attivi e passivi.

 Ciò in attuazione non solo del citato art. 120 tub ma anche in relazione all’art. 115 c. 1 tub, in materia di trasparenza delle condizioni contrattuali delle operazioni e servizi bancari e finanziari. Peraltro nelle operazioni di raccolta – si legge nella citata deliberazione – “gli interessi maturati alle scadenza periodiche possono produrre interessi secondo le modalità e i criteri contrattualmente stabiliti“, lasciando così in realtà assoluta libertà alle banche, che non sembrerebbe consentita dalla ratio legis. La norma di cui all’art. 120 del TUB appare completamente elusa dalla recente prassi bancaria. Infatti dopo il “terremoto” causato dalla numerose sentenze che hanno dichiarato nulla la clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, l’ABI ha ridimensionato il contratto di conto corrente in ottemperanza alle novità legislative, prevedendo, come già rilevato, la stessa cadenza temporale per la capitalizzazione sia degli interessi passivi che attivi. Nessuna obiezione su tale nuova formulazione sarebbe sollevabile se non fosse che in sede di applicazione del contratto i singoli istituti di credito non hanno, di fatto annullato l’effetto della contemporanea capitalizzazione.

Infatti gli istituti di credito, nel momento in cui si sono trovati costretti a modificare la modalità di conteggio degli interessi, hanno imposto tassi debitori consistenti e tassi creditori, praticamente irrilevanti, sempre inferiori allo 0,1% e ciò rappresenta una chiara elusione dell’art. 120 TUB il cui fine era quello di garantire un equilibrio tra tassi attivi e passivi.

Rapporto sinallagmatico e abuso del diritto

È infatti inevitabile ritenere fondante, nel contratto di conto corrente con affidamento l’aspetto sinallagmatico del rapporto data la stretta relazione tra interessi attivi e passivi che il d.l. 394/1999 convertito in L. 24/2000 che ha modificato il 2° comma dell’art. 120 TUB ha inteso dare (prevedendo la liceità della capitalizzazione degli interessi a condizione che ciò avvenga sia per quelli attivi che passivi con la medesima cadenza temporale).

E’ tale condotta, che a parere di chi scrive rappresenta una grave violazione del principio della buona fede sancito dall’art. 1375 c.c., principio volto a garantire l’equilibrio tra le contrapposte prestazioni, che nella questione in commento è estremamente sproporzionata. A tal fine gli interpreti hanno sempre maggiormente specificato e ampliato gli obblighi derivanti dalle clausole generali, come quelle della buona fede e dell’equità, affidando ad esse un ruolo imperativo e quindi derogatorio della stessa volontà dei contraenti. La condotta degli istituti di credito rappresenta un aspetto delle problematiche legate agli “equilibri contrattuali” che trovano la loro più alta garanzia proprio nel principio generale della buona fede. La buona fede, dunque, permea tutto il codice civile e anche quando non è richiamata esplicitamente dal legislatore opera come principio di portata generale a cui le parti e i soggetti di diritto possono fare riferimento nei loro rapporti sociali. Come è noto la violazione dell’obbligo di buona fede può comportare, responsabilità contrattuale ed obbligo risarcitorio. Non sembra discutibile infatti che il trend del diritto contrattuale sia quello di controllare i trasferimenti di ricchezza, mirando ad evitare che i più ricchi, per ciò solo dotati di maggiore forza contrattuale, si avvantaggino a danno dei più poveri.La buona fede si atteggia quindi come un obbligo di solidarietà,che impone a ciascuna parte di tenere quei comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal dovere extracontrattuale del «neminem laedere», senza rappresentare un apprezzabile sacrificio a suo carico, siano idonei a preservare gli interessi dell’altra parte (Cass. 9 marzo 1991, n. 2503, in Foro it., 1991, 1, c. 2077). Ricordando il noto giurista Wieacker la clausola generale assolve a tre funzioni (tesi è ripresa da Boehmer) (GrundlagenderbuergerlichenRechtsordnung, 1951): (i) funzione applicativa del diritto, nel senso di coadiuvare il giudice nell’esplicazione del suo ufficio; (ii) funzione suppletiva del diritto, nel senso di consentire al giudice una interpretazione praeterlegem, al fine di controllare se il comportamento delle parti sia conforme a giustizia; (iii) funzione correttiva del diritto, nel senso di individuare una soluzione che corregga lo strictumjus.

Tale visione appare oggi più che mai di necessaria applicazione al fine di ristabilire e garantire gli equilibri contrattuali a tutela dei contraenti più deboli. Rimane tuttavia ancora oggi faticosa l’applicazione del principio della buona fede. Il contrasto dottrinale al riguardo non è sopito: sin dall’Ottocento, e ancor oggi, alcuni ritengono che il giudice non possa che rimettersi alle vedute accolte dalla maggioranza e che debba fare cioè un semplice restatement; ma questa soluzione non è accolta da quanti (a cui lo scrivente si unisce) ritengono per contro che il diritto abbia una funzione direttiva del mutamento sociale e che questa funzione possa essere assolta dalla giurisprudenza (e quindi dal giudice) e dalla dottrina (e quindi dagli interpreti) e non solo dal legislatore (ALPA).

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